TRIBUNALE DI ROMA
IL GIUDICE
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA
letti gli atti a carico dell'on. Mevio, querelato dal senatore Sempronio per diffamazione a mezzo stampa, per un articolo pubblicato sul giornale "La Gazzetta di Ostierdam";
rilevato che il senatore Sempronio nella sua querela escludeva che nel caso di specie ricorresse a favore dell'on. Mevio la scriminante ex art. 68 co. 1 della Costituzione, in quanto le dichiarazioni sarebbero state rese al di fuori dell'esercizio delle funzioni di parlamentare;
OSSERVA
Il problema della libertà di pensiero e di espressione, affrontato nei tempi e nelle condizioni più diverse, come dai redattori della Dichiarazione di Indipendenza americana e della Costituzione italiana, ha sempre dato la stessa risposta: si tratta di un diritto essenziale e inalienabile. "L'informazione è un diritto fondamentale dell'uomo ed è la pietra di paragone di tutte le libertà" dichiara la Risoluzione n. 59 del 14 dicembre 1946 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
L'art. 2 della nostra Costituzione sancisce che: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Tra questi diritti vi è la libertà di pensiero, d'informazione e di espressione, richiamate come uno dei pilastri della democrazia dagli artt. 9 e 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dagli artt. 18 e 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, recepiti dal nostro sistema normativo grazie anche alla norma di inglobamento dell'art. 10 che recita: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute". Soprattutto la libertà di espressione del pensiero è garantita dall'art. 21 della nostra Costituzione là dove afferma che: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure".
La libertà di espressione e l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge in riferimento a questa libertà, a parere del giudicante, è compromessa dall'immunità parlamentare, richiamata peraltro nelle carte di questo processo vista la qualifica delle parti, istituto il cui fine è di permettere ai parlamentari di agire e dire in piena libertà e indipendenza nella loro funzione politica al riparo da pressioni esterne. Specificamente l'articolo 68 della Costituzione, modificato dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3, disciplina nella prima parte l'insindacabilità dei membri del Parlamento per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni (primo comma).
Orbene di fatto questa norma discrimina cittadini che esprimono le loro idee, soggetti a incriminazione in caso di diffamazione, e cittadini parlamentari i quali, invece, possono impunemente "diffamare" in nome della funzione politica svolta. Ciò malgrado i parlamentari siano rappresentanti del popolo e, quindi, virtuali paradigma di comportamento etico ineccepibile, essendo invece portatori di prerogative diversificanti, in nome delle quali possono usare espressioni che per i cittadini comuni portano alla diffamazione e alla pena e per i parlamentari no.
Se quella prerogativa parlamentare dev'esserci, come c'è, il principio di eguaglianza impone che ogni cittadino possa esprimere il proprio pensiero ed eventualmente "stigmatizzare in maniera virulenta" chi agisca in chiave politica, senza incorrere nelle maglie della legge penale.
In tale prospettiva appare il problema di fondo della concezione della Politica. Da tempo nel linguaggio è invalso l'uso di dare il titolo di "politico" solo in relazione a coloro che si dedicano all'attività di partito e di governo. Siamo molto lontani da quanto intendeva Aristotele quando definiva la Politica la scienza e l'arte di organizzare la Polis o la Città, ovvero in modo che i suoi abitanti possano vivere felici, cioè nella soddisfazione delle proprie esigenze, e da quanto intendeva Montesquieu quando introdusse la distinzione tra "Potere Legislativo, Potere Esecutivo e Potere Giudiziario", motivando che "può dirsi libera quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui confidato. L'unica garanzia contro tale abuso è che il potere arresti il potere, cioè la divisione dei poteri, e che tali poteri fondamentali possano essere affidati a mani diverse in modo che ciascuno di essi possa impedire all'altro di esorbitare dai suoi limiti convertendosi in abuso dispotico".
Tra i poteri in grado di controllare i detentori della res publica e denunziare qualunque stortura, devianza, strumentalizzazione, per far sì che essa in trasparenza sia retta da persone integerrime, c'è in primis il Terzo Potere, la Magistratura, cui spetta non solo un compito di conservazione dello status quo ma di critica dinamica al sistema per renderlo eguale e realmente democratico, con metodi rigorosamente legittimi tra cui rientra anche la stilanda ordinanza d'incostituzionalità.
Alla magistratura si affiancano il Quarto Potere, la Stampa, il Quinto Potere, la Televisione, e, ultimo arrivato, il Sesto Potere, l'Internet, dove a chiunque è concesso di accedere per manifestare con grande libertà il proprio pensiero e la propria critica.
Orbene tutti questi poteri alternativi hanno il diritto ma soprattutto il dovere morale e sociale di stigmatizzare il Potere Politico che contravvenga ai suoi doveri di tutela della cosa pubblica, essendo ciò contenuto nell'art. 3 della Cost. che al 2° co. recita: "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Nella fattispecie sottoposta al verdetto di questo giudice, poiché di fatto l'art. 68 della Costituzione crea disuguaglianza tra i cittadini quanto alla libera espressione del pensiero, la sua permanenza, alla luce degli articoli 2, 21 Cost., non può non risolversi in un'incostituzionalità della normativa penale sulla diffamazione a mezzo stampa che crea una disparità di trattamento tra privati e soggetti pubblici con prerogative parlamentari, trattati questi ultimi diversamente quanto alla loro capacità di esprimersi, criticare, attaccare l'altrui reputazione senza incorrere nella legge penale. Ciò in contrasto irrefragabile con l'art. 3, 1° comma della Costituzione che recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".
In definitiva le libertà globalizzate di pensiero, di parola, d'informazione e di espressione appaiono più che mai principi fondamentali su cui, nella costituzionalizzazione di fatto delle norme, si deve provare a ricostruire un nuovo mondo di realmente liberi ed eguali di fronte alla legge, eliminando le prerogative oggi esistenti o meglio estendendole ai cittadini comuni. Necessità imperante oggi più che mai nell'era di Internet che ha ampliato le frontiere di espressione e pubblicazione delle proprie idee a tutti i cittadini che non possono essere discriminati rispetto ai politici che sono i loro stessi rappresentanti. Ciò affinché la comunicazione politica su cui l'esercizio della democrazia si basa, sia plurale ed efficace, in grado di coinvolgere la cittadinanza e di renderla partecipe al sistema di governo in maniera davvero cooperante, solidale, egualitaria, com'è proprio del concetto antico di politica, cioè di dimensione in cui ogni uomo partecipa alla vita dell'urbe in pari condizioni con tutti gli altri.
In via generale, quindi, al cittadino, che è politico in ogni sua azione, dovrebbe essere concesso di esprimere le proprie opinioni sulla res publica senza incorrere nella legge penale.
Nello specifico al cittadino dovrebbe essere consentito di attaccare verbalmente o con scritti il politico così come fa il politico col cittadino o con un altro politico, quando entrambe le categorie agiscano in virtù di un'azione politica strictu sensu, ovvero di denunzia sociale di un comportamento commissivo o omissivo ritenuto criminale, illecito, immorale, etc., tale da ingenerare effetti negativi per lo Stato. Ciò sia che quel comportamento afferisca alla sfera pubblica sia che attenga a quella privata, quando si tratti di fatti di rilevante interesse pubblico, concernenti la collettività e il diritto supremo di questa ad essere informata.
Tale discorso è in linea anche con l'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (16 ottobre 2001/37140) con cui si è dato amplissimo spazio al diritto di cronaca qualora sussista un interesse pubblico alla conoscenza della notizia poiché, in tal caso, "la situazione giuridica del giornalista si sposta sempre più verso la sua polarità passiva: a fronte di fatti massimamente rilevanti la cronaca diviene sempre meno potere del giornalista e sempre più suo dovere, sempre meno un semplice interesse del cittadino e sempre più un suo diritto di natura pubblicistica" (Trib. Monza, 10 aprile 1995, Bossi, in Cass. Pen., 1995).
In conclusione la normativa sulla diffamazione a mezzo stampa che dovrebbe applicare questo giudice e che porta addirittura a una repressione penalistica (e non al più meramente civilistica) della fattispecie, appare in contrasto con i principi fondamentali della libertà di pensiero, di informazione e di espressione garantiti dalla Costituzione agli artt. 2, 3, 21, soprattutto in rapporto all'art. 68 della Costituzione là dove si crea una discriminazione ingiustificata (visto che ogni soggetto del popolo è politico) tra parlamentare e cittadino comune, categorie dichiarate più che mai eguali davanti alla costituzione del nostro stato democratico. Alias, in ipotesi parallele di "diffamazione con pretesto politico" il primo potrebbe avvalersi dello scudo parlamentare; il secondo è soggetto alla multa o addirittura al carcere.
Una disparità che porta la coscienza del giudicante a sollevare questione d'incostituzionalità, apparendo la repressione penale della diffamazione a mezzo stampa contraria allo spirito di democrazia reale espresso nei diritti fondamentali della nostra Costituzione, rimettendo la decisione in merito alla saggezza illuminata di codesto Eccellentissimo Consesso.
P.Q.M.
vista la L. Cost. 9 febbraio 1948 n. 1(G. U. 20-2-1948 n. 43) e la legge 11 marzo 1953 n. 87 dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalità degli artt. 595 1°, 2°, 3 ° co. c.p. e 13 legge 8.2.1948 n. 47 con riferimento agli artt. 2, 3, 21 in relazione all'art. 68 primo comma della Costituzione e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, sospendendo il giudizio in corso.
Ordina che a cura della cancelleria l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Ordina trasmissione della presente ordinanza per conoscenza al Presidente del Tribunale di Roma.
Così deciso in Roma il 21 febbraio 2003
IL GIUDICE
dott. Gennaro Francione