In questo pezzo si ripercorrono nuovamente le ragioni per cui gran parte della tassazione nazionale è manifestamente illegittima per violazione di una serie di precetti costituzionali. Illegittimità che si deve anche alla colpevole inerzia della Corte Costituzionale che in materia ha chiaramente mancato di coraggio pronunciando alcuni principi non accettabili in quanto palesemente errati sotto il profilo logico.
Prendendo spunto dal proseguo dell’attività processuale nella causa che vede contrapposto il Comune di Pontinvrea al Governo per ottenere la declaratoria di incostituzionalità delle imposte sulla casa voglio riepilogare le ragioni per le quali, a prescindere da eventuali ragioni di opportunità che nulla hanno a che vedere con il diritto e che purtroppo hanno spinto alcuni Magistrati a sostenere il contrario, le imposte sulla casa sono da considerarsi illegittime.
La causa pendente nanti al Tribunale di Genova è stata instaurato specificatamente per accertare la lesione dei diritti costituzionali dei cittadini con particolare riferimento a quelli previsti negli artt. 2, 3, 42, 47 e 53 Cost. Dunque specificamente si dibatte del diritto all’abitazione di cui all’art. 25 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, rientrante ex art. 2 Cost. nella piena tutela costituzionale, del diritto di uguaglianza di cui all’art. 3, del diritto di proprietà di cui all’art. 42 Cost., del diritto al diritto al risparmio di cui all’art. 47 Cost. e del diritto/dovere di concorrere alle spese dello Stato in base alla propria capacità contributiva reale.
Quanto segue è tratto direttamente dalla prima memoria depositata nella giornata di giovedì nella causa in corso curata dallo scrivente in rappresentanza del Comune di Pontinvrea del bravissimo Sindaco Matteo Camiciottoli e dagli Avv.ti Gabriela Musu e Laura Muzio in rappresentanza del cittadino rapallese che ha dato spunto all’azione.
-In merito alla violazione degli artt. 47 e 53 Cost.
Preliminarmente occorre rimarcare come le due norme costituzionali non siano mai stati vagliate congiuntamente dalla Corte Costituzionale benché siano un unicum inscindibile. La spesa pubblica infatti non deve essere interamente a carico dei contribuenti i quali hanno il ben diverso dovere di concorrere alla stessa. La lettura del combinato degli artt. 47 e 53 non lascia adito a dubbi sul punto.
Laddove si dispone che la Repubblica debba tutelare ed incoraggiare il risparmio in tutte le sue forme (ex art. 47 Cost.)ovviamente si qualifica il preciso ruolo giuridico-istituzionale del deficit pubblico (come ben ha sottolineato il Presidente della V Sez. del Consiglio di Stato Luciano Barra Caracciolo, probabilmente il punto di riferimento giuridico più elevato sul tema). L’accantonamento del risparmio privato è infatti possibile unicamente attraverso politiche di deficit di bilancio, ovvero lo Stato ogni anno deve necessariamente lasciare nelle tasche dei cittadini qualcosa in più rispetto a quanto drena con le tasse.
Assai semplice capire che se uno Stato, fin dal primo anno della sua esistenza recuperasse a tassazione esattamente la quantità di moneta emessa, il risparmio sarebbe matematicamente impossibile. In un sistema economico aperto esistono ovviamente altre variabili, quali ad esempio la bilancia dei pagamenti. Dunque il risparmio potrebbe essere creato con l’esportazione ma tale politica non è perseguibile nel lungo periodo e comunque non consentirebbe un risparmio “diffuso” come prevede l’art. 47 Cost. ma unicamente un risparmio concentrato nelle imprese che fanno esportazione ed in quelle ad essere strettamente correlate.
Il principio di cui si dibatte, ovvero il ruolo giuridico-istituzionale del deficit, trova poi conferma nello stesso articolo 53 Cost. laddove, non certo a caso, si afferma l’obbligo ad un mero contributo alla spesa pubblica. I cittadini, anno dopo anno, non corrisponderanno mai all’erario il 100% del costo della spesa pubblica, ma la minor quota sovranamente decisa dalla nazione. Ciò che rileva sottolineare è che tale ragionamento non è mai giunto all’attenzione della Corte Costituzionale che sino ad oggi ha sempre esaminato solo separatamente gli artt. 47 e 53 Cost. fissando però alcuni paletti, che comunque hanno grande importanza.
Paletti che oggi sono stati abbondantemente sovvertiti dalle politiche di indiscriminata tassazione sulla casa compiuta ai danni dei contribuenti, politiche che sic et simpliciter costituiscono il completo tradimento della Costituzione. Questo benché, nel complesso, come detto in apertura la Corte sul punto abbia comunque sempre mancato la stoccata decisiva.
Entriamo nel merito, rammentando tuttavia che qualsivoglia ordinanza di rimissione in tema imposte sulla casa sarebbe errata in partenza se non considerasse il necessario preambolo in merito al ruolo istituzionale del deficit pubblico di cui si è detto. In riferimento alla tutela del risparmio è di assoluto rilievo la sentenza n. 143/1995 nella quale si dibatté sulla legittimità del prelievo forzoso sui conti correnti compiuto dal Governo Amato.
Ivi la Corte, benché abbia affermato la natura programmatica dell’art. 47 Cost., comunque sottolineò che la norma si intende senza alcun dubbio violata allorquando si assista ad una “vera e propria contraddizione o compromissione dell’anzidetto principio”della tutela del risparmio.
Ovvero lo Stato, secondo la Corte, ha ampia autonomia in materia finanziaria (anche se sarebbe meglio dire aveva, visto che la sovranità monetaria ed economica è stata ceduta in violazione degli artt. 1 ed 11 Cost. ad un ordinamento esterno in forza dei Trattati istitutivi dell’UE ed in particolare dell’UEM) e può decidere la politica fiscale ritenuta di interesse nazionale, purché non sia cancellata la possibilità di creare risparmio.
Ebbene oggi, in materia fiscale, siamo giunti alla totale compromissione del risparmio. I termini della questione sono in realtà generali e non specifici sulle sole imposte che afferiscono alla casa. Infatti fin dal Protocollo n. 12 allegato al Trattato di Maastricht si è codificato il cd. vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e pil annuo. Tale parametro è stato imposto senza tenere in considerazione il costo degli interessi sul debito pubblico e pertanto, visto che tali costi superavano (e superano oggi) il predetto limite, l’Italia è stata costretta a fare avanzo primario (tassare più di quanto spende al netto degli interessi) da oltre vent’anni. Ovvero si verifica esattamente la situazione dell’esempio che si era fatto in precedenza. Abbiamo uno Stato che toglie più moneta di quanta ne immette rendendo impossibile il risparmio.
Anche tale cappello introduttivo non può mancare in un ordinanza di rimissione che riguardi l’oggetto del contendere. Ma abbandoniamo i termini generali per analizzare specificatamente le imposte sulla casa.
Se il risparmio è reso impossibile, a causa di una tassazione feroce che colpisce un contribuente a prescindere dalla reale capacità contributiva, tassando beni come la casa, il limite costituzionale evidenziato nella pronuncia n. 143/2005 è superato. Sempre più cittadini non pagano queste imposte semplicemente per una banalissima ed evidente circostanza, già abbondantemente provata, non dispongono delle somme necessarie a farlo. Ovvero ha una capacità contributiva insufficiente a pagare i tributi richiesti.
E veniamo ora ai paletti specifici in merito di capacità contributiva e progressività fiscale. La Corte Costituzionale ha spesso “salvato” molti tributi in forte odore di incostituzionalità. Come ho già detto è francamente è inutile girarci intorno e tanto vale dire le cose esattamente come stanno. La Corte, per non entrare in conflitto con gli altri poteri dello Stato (forse in ossequio alla separazione dei tre poteri fondamentali), ha formulato una serie di sentenze che indubbiamente tradiscono lo spirito dell’art. 53 Cost., sentenze tuttavia che, è bene ribadirlo, non hanno mai esaminato il tema congiuntamente alla violazione dell’art. 47 Cost.
La capacità contributiva infatti non può prescindere dall’essere effettiva e concreta. In sostanza desumere una capacità contributiva extra dal modo con cui si utilizza un reddito già tassato lascia davvero attoniti. Gli stessi padri costituenti limitavano tale ipotesi alle imposte non necessarie e di lusso auspicando una profonda modifica del sistema tributario a seguito dell’entrata in vigore della futura Costituzione, ma ciò non avvenne mai.
Peraltro alcune sentenze della Corte Costituzionale potevano avere un senso prima del già citato Protocollo n. 12 (dunque ante 1992) visto che allora il risparmio era comunque possibile ed i cittadini, in concreto, avevano la capacità contributiva per versare alcuni tributi indiretti su cui, complessivamente, lo Stato non calcava assolutamente la mano come fa oggi in cui il gettito da tributi indiretti ha sostanzialmente raggiunto quello da tributi diretti. Dopo le cessioni di sovranità compiute dai Trattati UE le vecchie sentenze sono indubbiamente inadeguate, inconferenti rispetto alla nuova realtà.
L’unico elemento indice di capacità contributiva effettiva, oggi come allora, non può che essere il reddito. Cosa si compra con il reddito accumulato è semplicemente una scelta che non induce a generare nuova capacità contributiva. Se si dispone di reddito 100 la capacità contributiva non varia certamente se si spende il 10%, il 20% oppure il 50% di detto reddito.
Inoltre la casa poi è per definizione il bene rifugio del risparmio nazionale e dunque, tassando la casa, si tassa reddito già soggetto a precedente tassazione nel momento in cui semplicemente si trasforma da risparmio liquido (deposito bancario) a risparmio immobiliare. Il coraggio di affermare un tale principio è sempre mancato alla Corte Costituzionale ma non si vede come non dovrebbe essere possibile farlo oggi, soprattutto se l’eccezione venisse formulata ricordando anche l’art. 47 Cost. ed il ruolo giuridico del deficit e del risparmio.
Un conto è affermare che un tributo indiretto non viola il principio di progressività (che ovviamente afferisce al sistema tributario nel suo complesso e non al singolo tributo), ben altro è affermare che l’abitazione principale o quella secondaria, qualora sia sfitta, costituiscano una capacità contributiva aggiuntiva.
In merito all’abitazione principale poi non vi può essere davvero alcun dubbio, il suo possesso non è un indice di capacità contributiva ma un diritto inalienabile dell’uomo. Si chiede dunque un gesto di coraggio nel rimettere alla Corte Costituzionale un’obiezione mai portata con tale schiettezza e decisione: ovvero che la conformità al principio della capacità contributiva sussiste solo laddove la tassazione è il corrispondente di una capacità contributiva reale, attuale ed effettiva e non già potenziale e che ovviamente il risparmio accantonato non è indice di capacità contributiva supplementare o aggiuntiva ma un diritto di rango costituzionale tutelato e riconosciuto. Senza questo principio si arriva al paradosso che chi non ha un reddito (si pensi ad un disoccupato) o chi ha un reddito insufficiente come l’attore che porta avanti la causa in corso nanti al Tribunale di Genova, viene tassato senza alcuna correlazione ad esso gettando un individuo nell’ovvia e conseguente disperazione e prostrazione. Così si sfocia nell’arbitrio e nell’irragionevolezza.
Peraltro il fatto che le imposte violino l’art. 53 Cost. allorquando siano intrinsecamente arbitrarie ed irrazionali è principio già affermato dalla Corte Costituzionale. Cosa c’è di più irrazionale ed arbitrario di tassare chi non ha un reddito sufficiente a pagare le relative imposte?
Esaminiamo quindi una delle sentenze più importanti della Consulta, quella che riguardò la vecchia I.C.I. che, erroneamente, fu salvata. La sentenza è la n. 111/1997.
La Corte affermò: “Il fatto che il legislatore individui, di volta in volta, quali indici rivelatori di capacità contributiva, le varie specie di beni patrimoniali, mobiliari ed immobiliari non è di per se lesivo del principio di uguaglianza e di capacità contributiva, purché la sua scelta discrezionale non sconfini nell’arbitrarietà”.
Ecco dunque che la Corte conferma il limite dell’arbitrarietà. Ed ovviamente è certamente arbitrario tassare chi non dispone della capacità contributiva sufficiente a pagare il relativo tributo. Ma il punto è un altro. La sentenza non brilla per costruzione argomentativa è un vero e proprio ossimoro.
Francamente non ci si aspetterebbe ragionamenti così irrazionali e contraddittori dalla Corte Costituzionale che dovrebbe essere la garante della legalità del nostro ordinamento. Non si può certamente affermare il principio “tassa ciò che vuoi” purché non si sconfini nell’arbitrarietà, principio che purtroppo pare evincersi dal tenore del passo delle motivazioni sopra riportato. Tassare ciò che si vuole è, per definizione, un atto palesemente arbitrario. Ovviamente, ben comprendendo che i Giudici della Corte Costituzionale hanno un bagaglio tecnico ed una preparazione talmente elevata da non poter scrivere una simile sciocchezza senza essersi resi conto del paradosso in cui sono palesemente caduti, appare chiaro un fatto preciso: all’epoca si intese rispettare l’autonomia del Parlamento.
Forse è anche encomiabile che in allora la Magistratura volesse preservare l’equilibrio dei poteri ma esecutivo e legislativo hanno dimostrato di non essere all’altezza della fiducia conferita proseguendo, negli anni, all’incremento di una tassazione sempre più scorrelata alla capacità contributiva. L’I.C.I. oggettivamente non si avvicinava nemmeno lontanamente al livello di pressione delle nuove imposte sulla casa, era un balzello sostenibile, benché incostituzionale.
La recrudescenza dell’imposizione sulla casa determina l’urgenza di ritornare sul tema, sapendo (e sperando) che questa volta i Giudici sapranno fare tesoro dell’errore commesso senza più concedere credito a chi ha dimostrato di non meritarlo. Indiscutibile checiò che si acquista con il reddito non comporta affatto un incremento della capacità contributiva che resta inscindibilmente correlata ad una ed una sola variabile: il reddito stesso con cui l’acquisto si è potuto effettuare. Casomai l’acquisto di un bene in assenza di reddito può essere indice di evasione fiscale ma non certo indice, ex lege, di capacità contributiva aggiuntiva.
Sono due cose completamente distinte. L’art. 53 Cost. fu norma di una chiarezza disarmante, non applicarlo è sic et simpliciter un fatto illecito. Il legislatore, forse perché non scottato dalla Corte Costituzionale, non ha previsto, adeguati indici di capacità contributiva ed adeguati correttivi al fine che la tassazione non diventi irrazionale ed arbitraria. Tassazione peraltro, che laddove colpisce la casa, comprime comunque un diritto fondamentale quale quello all’abitazione che trova ulteriore e specifica tutela sempre nell’art. 47 Cost. laddove testualmente si afferma che la Repubblica: “favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”.
Orbene una politica di feroce tassazione contro la casa ovviamente è l’esatto contrario di quanto previsto dalla norma. La tassazione infatti ostacola l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione.
-In merito alla violazione dell’art. 2 e 53 Cost.
L’art. 53 dovrà altresì essere esaminato anche in correlazione all’art. 2 Cost. Tra i diritti inviolabili della persona rientrano ovviamente quelli disciplinati dall’art. 25 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che recita: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
Il diritto inviolabile che moltissimi italiani vedono leso è ovviamente quello ad avere un tenore di vita sufficiente a garantire a se ed alla propria famiglia la salute ed il benessere, e ciò passa necessariamente anche dal fatto di avere un’abitazione in cui vivere.
Ovviamente la violazione dei diritti umani è la diretta ed inevitabile conseguenza della scorretta applicazione del principio della capacità contributiva che avrebbe dovuto essere inteso in maniera tassativa con correlazione automatica tra imposte e reddito salva la tassazione extra dei beni non necessari e di lusso, di cui si è abbondantemente detto in citazione laddove si esaminava il dibattito in seno all’assemblea costituente. Si rammentano nuovamente solo le importanti parole dell’On. Ruini: “Se ai singoli tributi indiretti non si addice il metodo della progressività, si può e si deve tener presente complessivamente tale criterio, gravando la mano sui consumi non necessari e di lusso”. In definitiva se si tassa una capacità contributiva che non c’è, inevitabilmente si incide sulla salute e sul benessere proprio di ogni uomo negandogli un’esistenza libera e dignitosa.
La Corte Costituzionale dovrà essere interessata della violazione dell’art. 2 Cost. da leggere necessariamente in combinato con quella dell’art. 53 Cost.
-In merito alla violazione degli artt. 3, 42 e 47 Cost.
L’art. 42 Cost. dispone: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Il tenore letterale della norma è chiaro. Non solo la proprietà privata è riconosciuta ma è compito della Repubblica quello di renderlaaccessibile a tutti i cittadini. Tassare, peraltro pesantemente, una proprietà è ovviamente un comportamento in antitesi con la predetta accessibilità, tenuto sempre a mente anche il fatto che la proprietà che costituisce accantonamento del risparmio va tutelata in combinato con l’art. 47 Cost. Peraltro non si comprende perché il legislatore dovrebbe tassare il risarmio che da contante si tramuta in immobile con evidente disparità di trattamento tra chi detiene disponibilità liquide e chi invece preferisce detenere tali risparmi in beni reali. Si configura dunque anche una chiara e manifesta violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
Peraltro la casa è un bene indispensabile che viene faticosamente pagato da qualsivoglia cittadino con i frutti del proprio risparmio.Dunque con denaro già soggetto a tassazione diretta. Viene spontaneo chiedersi che cosa faccia ad oggi lo Stato per rendere la proprietà della casa accessibile a tutti. La realtà è sotto gli occhi di chiunque: lo Stato non fa assolutamente nulla per rispettare il dettato dell’art. 42 Cost. e dunque rendere la proprietà della prima casa accessibile ad ogni cittadino anzi ostacola e scoraggia l’acquisto della proprietà di un bene immobile con ogni mezzo.
Ogni italiano oggi è consapevole che acquistare una casa comporta un carico fiscale spaventoso e ciò a partire dallo stesso momento dell’acquisto, ove si ha addirittura l’obbligo di sobbarcarsi gravose ed altrettanto illegittime, sotto il profilo costituzionale, imposte di registro ed ipotecarie. L’imposizione fiscale sulla casa è tale che la stessa non può neppure essere ancora considerata un valido bene rifugio per il risparmio degli italiani visto che il prezzo degli immobili sta rapidamente crollando. La casa è diventata per lo Stato il modo migliore per sottrarre ingenti somme ai cittadini così adempiendo all’altrettanto incostituzionale vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Che in definitiva altro non è che una vietatissima cessione di sovranità ex artt. 1 ed 11 Cost.
In conclusione, dati gli ingenti importi che sono chiamati a versare i cittadini, si potrebbe parlare di vero e proprio esproprio del diritto di proprietà della casa sostituito di fatto con un mero diritto di superficie.
Avv. Marco Mori
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