lunedì 15 dicembre 2014

Chiarimenti sull'istituto della perequazione urbanistica

Domenica 14 dicembre 2014 il Sindaco di San Giorgio del Sannio, in un incontro sui generis con la cittadinanza voluto -apparentemente- per stimolare la partecipazione (l'amministrazione Ricci è notoria per non chiedere mai il parere dei cittadini su iniziative spesso discutibili che intraprende !), non ha fatto altro che "promettere" la riduzione delle tasse per il prossimo anno ed autoelogiarsi sino all'inverosimile ...per avere acquisito al patrimonio comunale due aree mediante l'istituto della perequazione urbanistica. 
Inutile dire che l'incontro è stato un monologo, in cui qualunque domanda o intervento critico dei cittadini veniva scoraggiato tramite altisonanti e aprioristiche invettive !!!
Qualche testimonianza in merito può fornirla il signor Angelo DE BIASE presente all' "incontro pre-IMU e Tasi".
Senza presenziare alla riunione, ha dato una ottima risposta al Sindaco il gruppo di opposizione consiliare "Nuova San Giorgio" che sugli organi di stampa ha così detto:
La storia della perequazione a San Giorgio del Sannio è diversa da quella che dovrebbe
Grazie a questo strumento avremmo già dovuto veder realizzata la Villa Comunale, ma così non è dicono i consiglieri comunali d'opposizione Giovino Carpenella ed Antonio Castaldo

I consiglieri comunali di opposizione di San Giorgio del Sannio, Giovino Carpenella ed Antonio Castaldo , con una nota, sono intervenuti sulla questione relativa all'adeguamento del Puc (Piano Urbanistico Comunale) al Ptcp (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale). 
"Quello che avevamo previsto - scrivono - è accaduto.
A San Giorgio del Sannio, l'Amministrazione Ricci ha di recente approvato l'adeguamento, un'iniziativa che la maggioranza non ha esitato a definire di grande concretezza, lungimiranza e via dicendo.
Ma le dichiarazioni poco dicono nel merito di un atto che era obbligatorio. 
In sostanza il documento si conferma in perfetta linea con il Puc approvato nel 2008.
Non a caso il cuore del provvedimento, ancora una volta, è rappresentato dalla perequazione, strumento che in tutte le città che lo usano serve a realizzare prioritariamente un interesse pubblico concreto e tangibile e di conseguenza anche un interesse privato.
La storia della perequazione a San Giorgio del Sannio è ben diversa.
Grazie a questo strumento avremmo già dovuto veder realizzata la Villa Comunale.
Ad oggi, anche in temini di progettazione, c'è solo la perimetrazione dell'area, del resto non c'è traccia. 
Certo è stato acquisito il terreno in via Aldo Moro, circa 9000 mq, ma senza fondi per la 

villa, l'unico interesse ad essere realizzato resterà solo quello privato (concreto e tangibile fin da subito).
Stessa sorte probabilmente attende altri luoghi, come il terreno nei pressi del Palazzetto dello Sport di Sant'Agnese, sul quale si ipotizza l'allargamento degli impianti sportivi ma manca anche solo un'ipotesi su dove trovare i fondi.
La progettazione è allo studio di fattibilità e ben sappiamo quanti progetti si siano fermati così. 
Torniamo a dire, quindi, che sarebbe ora di smettere di utilizzare argomenti seri come la pianificazione territoriale per puro ritorno elettorale.
Per non dire poi di come, probabilmente, l'adeguamento sia stato usato anche per tentare di sanare, senza riuscirci, permessi di costruire non conformi allo strumento urbanistico adottato nel 2008. 
Allo stesso modo, l'approvazione del Ruec (Regolemento urbanistico edilizio comunale) non ha corretto le forti lacune presenti nel documento del 2008.
Infine vale la pena ricordare che il provvedimento avrebbe potuto anche essere occasione per pianificare il territorio in sinergia con i Comuni limitrofi, come più volte si è detto senza mai però passare dalle parole ai fatti".


Noi però vorremmo andare oltre ed offrire un contributo all'istituto della cd. perequazione urbanistica che in realtà è uno strumento iniquo.
E lo facciamo attraverso le parole del Prof.Roberto Camagni ,Ordinario di Economia urbana, Politecnico di Milano.

La perequazione urbanistica, intesa in senso stretto, costituisce uno strumento potenzialmente benefico e utile di gestione delle trasformazioni urbane. Essa consiste nella attribuzione di un indice lordo di edificabilità all'interno di ampie zone omogenee di trasformazione individuate dal piano, con contestuale concentrazione dell'effettiva edificabilità su singole sub-aree e cessione gratuita di altre aree al Comune.

Gli obiettivi, e i relativi benefici, potenzialmente ricavabili sono noti: efficacia urbanistica, attraverso un migliore disegno urbano e maggiori spazi pubblici; equità nel trattamento degli interessi privati; semplificazione, poiché si evita il ricorso a lunghe e costose procedure di esproprio.
Con modalità che giudico quantomeno superficiali e anomale, ci si sta oggi rapidamente avviando alla introduzione nel nostro ordinamento di una nuova interpretazione di questo istituto, di dubbia operatività e soprattutto di altamente dubbia equità: la perequazione ‘sconfinata', con diritti edificatori (DE) trasferibili senza correttivi ovunque nella città, dove sia prevista dal Piano una edificabilità effettiva.

Perché si tratta di un processo superficiale? Perché, partendo dalla innegabile necessità di normare a livello nazionale la pratica, oggi consolidata, della perequazione urbanistica, non ci si rende conto che, abbracciando la perequazione ‘sconfinata', siamo di fronte a una discontinuità, una differenza fondamentale. Nella perequazione tradizionale,‘punto-a-punto', con definizione contestuale dell'area di origine e dell'area di ‘atterraggio', il valore del DE è pienamente definibile, e come tale assegnabile dal pianificatore pubblico al privato in modo trasparente e facilmente trattabile sul mercato fra privati. Nella perequazione ‘sconfinata' invece il DE è commerciabile senza preventiva conoscenza dell'area di destinazione, e quindi senza una qualunque possibilità di definirne il valore. E questo fatto è gravido di conseguenze negative, operative e normative.

Perché si tratta di un processo anomalo? Perché la vera natura e i limiti della perequazione ‘sconfinata', nonché i possibili correttivi, sono ben chiari alla migliore teoria urbanistica, estimativa, giuridica ed economica urbana; ma nel dibattito pubblico e nelle attuali traduzioni normative i facili correttivi non sono mai presi in considerazione.

La normativa statale recente tratta esplicitamente dei DE trasferibili nel ‘Decreto Sviluppo' del 13 maggio 2011 (convertito in l. 12 luglio 2011 n. 106, art. 5 comma 3), prevedendo la pubblicità delle relative compravendite attraverso la trascrizione in apposito Albo e conseguentemente nei registri catastali. Essa non distingue fra le due fattispecie, quella tradizionale e quella recente, ‘sconfinata', normata nel PGT di Milano, adottato ma non approvato dalla precedente Giunta Moratti nel febbraio 2011; e si arguisce che si intenda applicarla a entrambe le fattispecie. Invece, in modo esplicito, il "Progetto di riforma in materia di perequazione urbanistica", predisposto in forma di Bozza di Disegno di Legge dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri e dal Consiglio Nazionale degli Architetti, con la consulenza del giurista Paolo Stella Richter, prevede proprio la fattispecie ‘sconfinata': "La potenzialità edificatoria non direttamente utilizzabile nell'area di proprietà può essere liberamente trasferita, nell'ambito di uno stesso Comune, su altra area, propria o di altro proprietario" (all'art. 6 comma 6).

In un importante convegno sulla "Borsa dei diritti edificatori" su iniziativa della Borsa Immobiliare di Milano (22 febbraio), sono state presentate numerose riflessioni e proposte in materia giuridica, urbanistica e tributaria. Il DE e le relative volumetrie sono state definite dal Presidente del Consiglio Notarile di Milano come ‘beni immateriali', "che possono formare oggetto di diritti, assimilabili ai beni immobili" (1); tuttavia si afferma – con una rilevante forzatura a mio avviso – che i DE "assumono (debbono assumere) una qualità del tutto eterogenea rispetto agli altri beni immobili: quella di essere privi di localizzazione fisica" (p. 50).

Come non vedere in tutto ciò una contraddizione evidente? Il DE origina agganciato a un bene immobile (il fondo di proprietà, precisamente localizzato e conseguentemente valorizzato), ma l'effettiva edificazione non è esercitabile in loco; nel successivo periodo del ‘volo', in cui viene compravenduto due volte, il DE perde contatto con la localizzazione di origine e diviene un generico ‘diritto a costruire un metro cubo ovunque nella città'; infine, allorché ‘atterra' riappare come diritto a costruire ‘un metro cubo localizzato', nell'area dell'utilizzatore, assumendo un nuovo valore (una plus- o minus-valenza) dato dalla differenza fra la qualità urbanistica del luogo di origine e di destinazione.

Elenchiamo le conseguenze e le contraddizioni operative in cui si incorrerebbe (se non si applicassero alcuni necessari correttivi, peraltro mai citati nel convegno):
-il mercato che si intende promuovere non avrebbe certo le necessarie caratteristiche di certezza, affidabilità e trasparenza, poiché i beni compravenduti, i DE, acquisiscono un valore solo ex-post, alla fine del processo, e cioè in fase di ‘atterraggio', e non ex-ante allorché sono affidati per la vendita alla Borsa;
-nella Borsa dei diritti si tratterebbe un solo bene omogeneo, il ‘metro cubo milanese' (nel caso esaminato), cosa quanto mai peculiare;
-il prezzo di mercato di questo unico bene sarebbe un prezzo medio, definito dalla quantità complessiva dei DE assegnati in città e delle edificabilità effettive. In conseguenza, questo prezzo sarebbe troppo elevato per una utilizzazione periferica (e quindi quest'ultima risulterebbe disincentivata o comunque non profittevole) e sarebbe troppo a buon mercato per una utilizzazione centrale (con vantaggio indebito per il contraente più scaltro);
-nel caso di un DE nato su una localizzazione periferica e utilizzato su localizzazioni centrali, è chiaro che il proprietario di un terreno centrale (con edificabilità accoglibile attraverso l'acquisto di diritti) sarebbe disposto a pagarlo ben più del suo prezzo medio, formatosi sul mercato indifferenziato. A chi andrebbe questo plusvalore? Potrebbe andare al detentore del DE, ma solo se questi cercasse e trovasse compratori fuori borsa; o all'utilizzatore finale, che avrebbe invece tutto il vantaggio di restare anonimo in borsa, e che comunque non ne avrebbe gran diritto; o infine all'intermediario di borsa, che trarrebbe un guadagno ingiustificato per effetto della non trasparenza del mercato.

Verisimilmente, sempre nel caso ipotizzato al punto precedente, si verificherebbero due casi più probabili. Da una parte, un allungamento della catena delle transazioni: l'acquirente del DE opererebbe in Borsa, acquisterebbe al prezzo medio e successivamente venderebbe all'utilizzatore finale a un prezzo maggiorato, grazie alla conoscenza della localizzazione di utilizzo; sarebbe o un intermediario o un prestanome, magari estero-vestito, dell'utilizzatore finale. D'altra parte, il secondo caso probabile consisterebbe nella corsa all'acquisto anticipato, da parte di possibili utilizzatori finali, non di DE ma di terreni periferici, dotati di diritti edificatori, a partire dal momento in cui sia divenuta probabile l'adozione della perequazione sconfinata nel Piano. Entrambe queste prassi sarebbero figlie del meccanismo scopertamente speculativo che la perequazione sconfinata crea e legalizza.

Come ho cercato di chiarire in una precedente occasione (2), da tutto quanto precede emerge una doppia contraddizione: la perequazione ‘sconfinata' sarebbe ingestibile da una Borsa dei Diritti, perché tratterebbe un bene il cui valore è indefinibile nel momento in cui viene compravenduto; inoltre sarebbe profondamente iniqua, perché attribuirebbe uguali diritti (volumetrie utilizzabili ovunque) ai possessori di diritti di proprietà su suoli del tutto differenti, e dunque diversamente valorizzati. Si concretizzerebbe un nuovo, e del tutto artificiale, percorso speculativo, con l'attribuzione, per decisione pubblica, di vistose rendite differenziali ai proprietari di terreni periferici dotati di DE utilizzati su terreni centrali.

In questa situazione, appare inspiegabile e preoccupante la riconferma, effettuata dalla nuova Giunta di Milano, del principio della perequazione ‘sconfinata' nel PRG recentemente approvato (art. 7 comma 5 del Piano delle Regole). E' ben vero che l'applicazione più scandalosa, ad alcune aree verdi di cintura, localizzate nel Parco Sud, prevista dal precedente PGT, è stata cancellata e che il meccanismo là previsto è stato fortemente "depotenziato": ma un principio vizioso e inaccettabile, quand'anche depotenziato, non diviene per ciò stesso un principio virtuoso e accettabile.

Ciò è tanto più strano in quanto tre dei principali proponenti e sostenitori di questo principio, che operano in ambiente tecnico-scientifico, hanno scritto a chiare lettere che la perequazione sconfinata genera inaccettabili iniquità: Gigi Mazza nel 2004 (3) , Ezio Micelli nel 2011 (che ha comunque firmato il dispositivo della precedente amministrazione milanese) (4) e Marcello de Carli (5) nel 2012. Tutti e tre questi autori - come io stesso nel saggio citato - indicano due semplici correttivi possibili e necessari: o limitare la trasferibilità dei diritti su ampie ma definite fasce urbane a simile valorizzazione, o permettere la piena trasferibilità dei DE ma definendo coefficienti di correzione (ad esempio: due DE originati in periferia per un metro cubo da realizzare in semicentro).

Ancora più preoccupante appare poi la proposta, fatta nella citata Bozza di Disegno di Legge del Consiglio Nazionale degli Ingegneri e degli Architetti, che la libera compravendita dei diritti edificatori avvenga "senza che il trasferimento sia soggetto a oneri fiscali" (Art. 6 comma 6). Dunque un diritto di natura immobiliare, elargito gratuitamente dalla pubblica amministrazione per finalità pubbliche e comportante potenzialità edificatoria effettiva anche in zone centrali, dovrebbe essere esente da tassazione?

In sintesi: una perequazione con trasferimento di diritti nell'intera città senza correttivi o rapporti di concambio – che, come ci ricorda Maria Cristina Gibelli, non è utilizzata in nessun altro paese (6) – oltre ad essere probabilmente inapplicabile, autorizzerebbe un modello del tutto nuovo e artificiale di speculazione fondiaria e immobiliare, premiando con una rilevante e indebita rendita differenziale alcuni proprietari. I correttivi possibili sono stati chiaramente definiti e sono facilmente utilizzabili, ma nelle applicazioni concrete e nelle proposte di legge non se ne parla.
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NOTE

(1) D. De Stefano, "La circolazione dei diritti edificatori", in M. De Carli (a cura di), La libera circolazione dei diritti edificatori, nel Comune di Milano e altrove, Milano, F. Angeli, 2012, p. 48.

(2) R. Camagni, "L'uso improprio della perequazione urbanistica: il caso del PGT di Milano", EyesReg – Giornale di Scienze Regionali, Vol. 1, N. 1, Maggio 2011.

(3) "Il valore di un'area dipende sia dai diritti di edificazione assegnati, sia dalla sua posizione nello spazio urbano. (…) Pertanto, senza interventi correttivi, si potrebbero trasferire diritti di aree a basso valore su aree ad alto valore con una forte sperequazione rispetto ai trasferimenti tra aree a uguale valore. L. Mazza, "Un'ipotesi di indice unico per le assegnazioni d'uso del suolo di Piano regolatore", in L. Mazza, Prove parziali di riforma urbanistica, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 150.

(4) "La liberalizzazione dei diritti edificatori e dei crediti edilizi rende più fragile l'equità nella distribuzione dei valori. Il titolare di un diritto edificatorio sorto su di un'area periferica della città può infatti commercializzare il potenziale volumetrico in aree centrali ottenendo valori superiori a quelli delle aree in cui il diritto edificatorio è sorto"; "forme di regolazione dunque sono essenziali". E. Micelli, La gestione dei piani urbanistici – perequazione,accordi, incentivi, Marsilio, Venezia, 2011, p. 113 e 116.

(5) "La perequazione sconfinata prevista dal PGT adottato da Milano (…) non è perfettamente equa: (…) sono avvantaggiati dalla rendita differenziale i proprietari delle aree edificabili centrali o i proprietari di aree [di origine dei DE] periferiche che riescano ad appropriarsi, nella compravendita, di quote di rendita differenziale". M. De Carli, op. cit., p.93.
(6) M.C. Gibelli, "Pisapia si (pre-)occupa di urbanistica?", AlcipelagoMilano, 15 e 22 maggio 2012.

ESTRATTO DAL LIBRO: Perequazione urbanistica, Filodiritto Editore, Bologna, Aprile 2013
I Consiglio di Stato ha ritenuto di rinvenire la copertura “normativa” dell’istituto della perequazione nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis e 11 della L. 241/90 ss.mm., ossia nella possibilità di ricorrere agli strumenti convenzionali per il perseguimento delle finalità perequative.
Diversamente opinando, la latitanza del legislatore determinerebbe guasti notevoli in un ambito così delicato, se si pone mente al fatto che, dopo la legge 1150/1942 (la quale, seppur in maniera innovativa per l’epoca, ha disciplinato la materia in generale), l’unico intervento riformatore varato è rappresentato dalla cosiddetta legge-ponte, la L. n. 765/1967 (che, pur introducendo alcuni istituti quali lo standard e lo zoning, non costituisce una disciplina organica della materia).
Visto l’ampio spazio temporale trascorso e visti i mutamenti sociali, economici, territoriali, si comprende perché sia molto sentita l’esigenza di una nuova legge urbanistica nazionale.
Come si è anticipato in precedenza, numerosi sono stati i vari tentativi di riforma, che non hanno avuto esito positivo. Tuttavia, anche precedentemente agli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di strumenti convenzionali legittimanti, il legislatore nazionale – pur astenendosi dall’articolare una disciplina esatta – ha (espressamente) evidenziato l’istituto dei diritti edificatori, ancorché “sparsi” in diversi provvedimenti legislativi, ove quindi è possibile rinvenire i prodromi legittimanti.
Le sopracitate leggi, attraverso l’espresso riferimento alla nozione di diritto edificatorio, avevano indotto la dottrina ad interrogarsi se tali interventi potevano costituire il fondamento a livello statale dei concetti di perequazione, compensazione e premialità, concludendo per la soluzione negativa, in quanto trattasi di interventi estemporanei e contingenti.
Con riguardo alle Regioni che non hanno disciplinato la materia, dunque, inizia a profilarsi una generalizzata ammissibilità delle tecniche perequative anche in assenza di un’espressa normativa. E ciò perché le finalità distributive della perequazione sembrano caratterizzare anche istituti già noti, quali il comparto edificatorio di cui all’art. 23, L. n. 1150/1942, il piano di recupero di cui alla L. 457/1978, ed il sistema delle lottizzazioni convenzionate ex art. 28 legge n. 765/1967, «istituti che si basano sul principio secondo il quale chi si giova di una previsione urbanistica favorevole, ritraendone un certo incremento di valore, può legittimamente essere chiamato a sopportare, con una parte di quell’incremento, i costi delle opere di urbanizzazione e più in generale della sistemazione urbanistica, purché si tratti di opere e di interventi la cui utilità pubblica trascende i confini della sua proprietà».
Per completezza è necessario dare atto di un orientamento contrario, sebbene abbastanza isolato, per il quale la possibilità di perequare «non può essere affatto considerata implicita al sistema e la sua compatibilità con la legislazione vigente va preliminarmente dimostrata».
Recentemente, di fronte a legittimazioni di natura giurisprudenziale, sempre subordinate ad oscillazioni e mutamenti, è intervenuto in emergenza il legislatore.
In tal senso può essere letto il recente “decreto sviluppo” n. 70 del 2011, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, che consente una minimale “copertura” normativa di livello nazionale alla perequazione. Non si tratta di quel «quadro di regole completo», auspicato dal Consiglio di Stato nelle sue recenti pronunce, bensì pare più come un soccorso d’urgenza, al fine di garantire certezza alla circolazione “aerea” dei diritti edificatori.

Le perequazioni nelle legislazioni regionali
In ragione dei molteplici interessi (economici in primis), pubblici e privati, cui i nuovi strumenti di pianificazione sembrano in grado di rispondere, nell’ultimo decennio si è assistito ad un considerevole sviluppo di legislazioni regionali in materia.
Ciò ha comportato che, nei territori regionali in cui non era/è presente alcuna disciplina, una delle questioni più avvertite è stata la valutazione sull’ammissibilità o meno dell’istituto perequativo in assenza, fino ad oggi, di un’esplicita previsione legislativa a monte.
La giurisprudenza soccorre ancora una volta alle lacune dell’ordinamento, e comunque in senso favorevole alla perequazione anche in difetto di una espressa normativa che la disciplinasse. E, difatti, i giudici amministrativi si sono espressi sulle eccezioni di non conformità alla legislazione vigente e contrasto con i principi costituzionali in materia di proprietà e di legalità dell’azione amministrativa, non rinvenendo allo stato attuale alcuna disciplina, di fonte legislativa, che autorizzi una riserva di proprietà fondiaria alla mano pubblica in assenza di specifica normativa primaria e al di fuori delle garanzie previste dall’art. 42 della Costituzione.
Invero, è stato affermato che lo strumento della perequazione, «sebbene non contemplato a livello di legislazione nazionale, è stato progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali cui è affidata la disciplina del territorio e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata» (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504; 10 gennaio 2011, n. 11).
Il delineato regime perequativo si regge – come evidenziato dal Consiglio di Stato, nella cit. sentenza n. 4545/2010 – «su due pilastri fondamentali e immanenti all’ordinamento: a) da un lato, il potere conformativo del territorio di cui l’amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività pianificatoria; b) d’altro lato, la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse». Il potere conformativo costituisce espressione della funzione amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti. Il ricorso a moduli convenzionali attraverso cui realizzare gli obiettivi di perequazione urbanistica non è, poi, estraneo all’esperienza pianificatoria del nostro ordinamento (basti rammentare le convenzioni di lottizzazione) ed è anche rinvenibile negli accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.p.r. n. 327/2001, che costituiscono proprio una applicazione alla particolare materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per il perseguimento di scopi di pubblico interesse.
Più in generale, costituisce un principio giurisprudenziale oramai consolidatosi, quello secondo cui la base normativa della previsione degli strumenti consensuali per il perseguimento di finalità perequative va individuata nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis, e 11 della l. n. 241/1990. Ed invero, il legislatore con tali disposizioni ha optato per una piena e assoluta fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.
Essendo, così, venuta meno la previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col che non è stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei provvedimenti, in quanto lo strumento convenzionale deve pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli tipici disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, l’art. 11 cit. prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.
Nel caso sottoposto alla cognizione del giudice, l’amministrazione resistente aveva predeterminato le condizioni alle quali avrebbero potuto attivarsi i meccanismi convenzionali di cui alla L. 241/90 (solo se e quando i proprietari interessati avessero ritenuto di avvalersi degli incentivi connessi, e, cioè, di fruire della capacità edificatoria attribuita alla c.d. “superficie integrata”; ove ciò non fosse avvenuto, il Comune interessato alla realizzazione di attrezzature pubbliche, avrebbe dovuto attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, e cioè, in primis, con le procedure espropriative, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).
Da quanto sopra emerge, dunque, come le prescrizioni urbanistiche de quibus – secondo il giudice amministrativo – trovino «il proprio fondamento in principi ben radicati nel nostro ordinamento, con riguardo, da un lato, al potere pianificatorio e di governo del territorio e, dall’altro, alla facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti».
In armonia con tali presupposti, la circostanza che si tratti di principi radicati nella legislazione nazionale consente di elidere in radice la lamentata lesione delle prerogative statali in materia: è evidente, infatti, che in tale panorama, anche in assenza di specifiche previsioni, la perequazione rimane rispettosa dei limiti imposti in materia di governo del territorio, dalla legislazione statale, sia esclusiva sia concorrente, alla potestà normativa delle regioni e dei comuni ex art. 117.
Tuttavia, proprio il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa ha avuto modo di sottolineare a penna rossa come si ravvisi, comunque, «l’opportunità che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio, la cui adozione sarebbe auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico».
Malgrado tale auspicio, la perdurante assenza dell’intervento legislativo statale non può impedire, da un lato, «che le regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia nel rispetto dei principi generali della legislazione statale» e, d’altro lato, «che tali principi vadano individuati sulla base del quadro normativo attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica stratificatasi sul ceppo dell’originaria l. n. 1150/1942 e dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale)»: è in questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche disposizioni, le quali, di volta in volta e per singoli profili, potrebbero venire intese quali “copertura” legislativa dei controversi istituti perequativi, costituiscono, in realtà, espressione dei principi generali richiamati.
In conclusione, il Consiglio di Stato ha ritenuto di rinvenire la copertura “normativa” dell’istituto della perequazione nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis e 11 della L. 241/90 ss.mm., ossia nella possibilità di ricorrere agli strumenti convenzionali per il perseguimento delle finalità perequative.
Diversamente opinando, la latitanza del legislatore determinerebbe guasti notevoli in un ambito così delicato, se si pone mente al fatto che, dopo la legge 1150/1942 (la quale, seppur in maniera innovativa per l’epoca, ha disciplinato la materia in generale), l’unico intervento riformatore varato è rappresentato dalla cosiddetta legge-ponte, la L. n. 765/1967 (che, pur introducendo alcuni istituti quali lo standard e lo zoning, non costituisce una disciplina organica della materia).
Visto l’ampio spazio temporale trascorso e visti i mutamenti sociali, economici, territoriali, si comprende perché sia molto sentita l’esigenza di una nuova legge urbanistica nazionale.
Come si è anticipato in precedenza, numerosi sono stati i vari tentativi di riforma, che non hanno avuto esito positivo. Tuttavia, anche precedentemente agli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di strumenti convenzionali legittimanti, il legislatore nazionale – pur astenendosi dall’articolare una disciplina esatta – ha (espressamente) evidenziato l’istituto dei diritti edificatori, ancorché “sparsi” in diversi provvedimenti legislativi, ove quindi è possibile rinvenire i prodromi legittimanti.
Le sopracitate leggi, attraverso l’espresso riferimento alla nozione di diritto edificatorio, avevano indotto la dottrina ad interrogarsi se tali interventi potevano costituire il fondamento a livello statale dei concetti di perequazione, compensazione e premialità, concludendo per la soluzione negativa, in quanto trattasi di interventi estemporanei e contingenti.
Con riguardo alle Regioni che non hanno disciplinato la materia, dunque, inizia a profilarsi una generalizzata ammissibilità delle tecniche perequative anche in assenza di un’espressa normativa. E ciò perché le finalità distributive della perequazione sembrano caratterizzare anche istituti già noti, quali il comparto edificatorio di cui all’art. 23, L. n. 1150/1942, il piano di recupero di cui alla L. 457/1978, ed il sistema delle lottizzazioni convenzionate ex art. 28 legge n. 765/1967, «istituti che si basano sul principio secondo il quale chi si giova di una previsione urbanistica favorevole, ritraendone un certo incremento di valore, può legittimamente essere chiamato a sopportare, con una parte di quell’incremento, i costi delle opere di urbanizzazione e più in generale della sistemazione urbanistica, purché si tratti di opere e di interventi la cui utilità pubblica trascende i confini della sua proprietà».
Per completezza è necessario dare atto di un orientamento contrario, sebbene abbastanza isolato, per il quale la possibilità di perequare «non può essere affatto considerata implicita al sistema e la sua compatibilità con la legislazione vigente va preliminarmente dimostrata».
Recentemente, di fronte a legittimazioni di natura giurisprudenziale, sempre subordinate ad oscillazioni e mutamenti, è intervenuto in emergenza il legislatore.
In tal senso può essere letto il recente “decreto sviluppo” n. 70 del 2011, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, che consente una minimale “copertura” normativa di livello nazionale alla perequazione. 
Non si tratta di quel «quadro di regole completo», auspicato dal Consiglio di Stato nelle sue recenti pronunce, bensì pare più come un soccorso d’urgenza, al fine di garantire certezza alla circolazione “aerea” dei diritti edificatori.
La coordinatrice del Comitato
Rosanna Carpentieri

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