Crediamo sinceramente che nessuno possa conoscere fin d’ora il futuro della Grecia. Non gli economisti, non i politici, non gli esperti, tanto meno i giornalisti né la gente comune. Detto questo, auspichiamo fortemente che la stessa «crisi» abbia luogo anche da noi, in Italia, e ci divertiamo a prefigurare uno scenario (im)possibile.
File interminabili ai bancomat che erogano dieci euro al giorno. Non di più: per ricchi e per poveri. D’un tratto cambierebbero tutti i rapporti e le dinamiche esistenziali. Quelli come noi, che non possiedono quasi nulla e tengono in poco conto il denaro, continuerebbero la propria vita più o meno allo stesso modo, mentre tutti gli altri, i ricchi e i poveri, strettamente dipendenti dalla cartamoneta, inizierebbero il piagnisteo infinito del tipo: tutta una vita di sacrifici senza ritrovarsi niente in mano; diritti acquisiti; governo ladro; banchieri delinquenti. E a quel punto il terreno sarà fertile per scatenare nuove guerre. Perché è chiaro che agli occhi dei poveri e dei ricchi (ormai poveri) sarà pure di qualcuno la colpa della crisi, di qualcuno che non ha saputo competere, che non è stato in grado di sbranare il nemico al momento opportuno, di assestare il colpo decisivo.
I ricchi (non più ricchi) e i poveri grideranno le stesse parole d’ordine, chiederanno i medesimi aiuti, e si accorgeranno – forse per la prima volta – di essere stati sempre dalla stessa parte. Di essere stati dalla parte della violenza e della lotta, dalla parte di chi corre, di chi va veloce per non pensare alla vita. Perché se si ferma a guardare la voragine che lo consuma ogni giorno, dovrebbe fare i conti col vuoto di cui è fatto e di cui sono fatte le cose che lo circondano. Per questo motivo si sfianca a lavoro (leggi anche Quella sveglia puntata alle sei del mattino), vive di corsa, s’insinua fra le maglie strette della massa e a colpi secchi di spalla tenta la scalata alla piramide sociale. Dall’alto spera di dominare il mondo, senza accorgersi che più sta in alto e più è schiavo del sistema.
I ricchi (non più ricchi) e i poveri sono fatti della stessa pasta. Hanno accettato la sfida, sono saliti sul ring: qualcuno ha vinto, qualcun altro ha perso. Ieri pensavano di lottare su opposte barricate, ma oggi, con i bancomat bloccati, combattono la stessa battaglia contro il destino che li accomuna e di cui sono i soli responsabili.
Nell’accettare la razionalità violenta, i ricchi e i poveri sono i carnefici di se stessi. Per secoli hanno vissuto l’illusione di una crescita infinita, hanno creduto alle elargizioni della mano invisibile, hanno sperato di poter superare qualsiasi ostacolo. Ma la mano invisibile li ha schiacciati senza pietà, gli ostacoli sono implosi franandogli addosso e in mano non resta più nulla.
Eppure sono ancora lì, in fila indiana davanti al bancomat, in attesa di un miracolo, nella speranza di un gesto partorito dal solito deus ex machina che irrompe nella storia a sistemare le cose. Neppure dinanzi al disastro sono capaci di cogliere la miseria umana che li circonda e li costituisce da sempre. E così maledicono la sorte per quei soldi che pensano di poter pretendere e sui quali vantano un diritto, per il semplice fatto di essersi spaccati la schiena a forza di lavorare.
I ricchi (ormai poveri) piangono il possesso svanito. I poveri piangono il sogno del possesso svanito. E strepitano entrambi per la ricchezza edificata ed edificante, per le famiglie bene, per le università rinomate, per i circoli esclusivi e per tutto ciò che di punto in bianco appare irrimediabilmente perduto.
I ricchi e i poveri piangono perché, diversamente da Kant, vivono per intero la miseria del presente ed ignorano il fatto che
«non siamo ricchi per ciò che possediamo, ma per ciò che possiamo fare senza possedere nulla».
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